emuse incontra Federico Montaldo e Luca Nizzoli Toetti
Fui subito entusiasta. Mi interessava capire cosa di quei giorni che avevo vissuto era rimasto, cosa ancora potevano raccontarci quelle vicende. Detto, fatto. Qualche mese più tardi pubblicammo G8/Venti. Un sogno in sospeso, curato da Federico per la parte testuale e da Luca per la parte fotografica.
Il volume contiene testi di Don Ciotti, della sociologa Donatella della Porta e dello storico Carlo Greppi. Le oltre 90 fotografie, una ricostruzione particolareggiata di quei giorni, sono di Francesco Acerbis, Elio Colavolpe, Carlo Hermann, Luana Monte, Luca Nizzoli Toetti e Mirco Toniolo.
Quando iniziammo a lavorare al libro, avevamo chiaro che non dovesse essere un lavoro di nostalgica rievocazione, piuttosto rappresentare la possibilità, attraverso l’analisi a posteriori, di capire cosa quelle vicende abbiano da dire e insegnare a tutti noi ancora oggi. In che modo credete di essere riusciti a farlo?
Federico: Le fotografie sono anzitutto documentazione, ma con il passare del tempo diventano memoria storica. Nel riflettere sui fatti di Genova, a distanza di vent’anni, ho pensato anzitutto alle mie figlie, che all’epoca non erano ancora nate. E al fatto che un evento per me così vicino nella memoria e nella coscienza, e quindi in qualche modo ancora “caldo” (e non solo perché sono genovese), era per loro qualcosa di sconosciuto o comunque molto vago. Per loro come per tutti i cd. millennials, che oggi o hanno già il diritto di voto o lo avranno a breve, e che quindi avranno modo di incidere sulle scelte politiche che orienteranno la nostra società negli anni a venire. Abbiamo così sentito il dovere di raccontare. Se ci siamo riusciti, spetta ad altri dirlo. Di certo ci abbiamo provato. E ci abbiamo provato con due linguaggi tra loro complementari: da una parte quello della fotografia, più immediato e diretto, se si vuole anche sul piano emotivo; dall’altro quello della riflessione scritta da parte di chi quella esperienza l’ha vissuta, l’ha studiata, l’ha elaborata ed è oggi in grado di raccontarla; non più con i toni della cronaca, ma con uno sguardo in prospettiva che solo il passare del tempo consente.
Luca: Non so se siamo riusciti a realizzare ciò che ci eravamo immaginati. Quello che so per certo è che le fotografie e i testi che abbiamo raccolto sono complementari, che aiutano una più profonda comprensione di ciò che è successo in quei giorni sia da parte di chi c’era, sia da parte di chi non c’era o ancora non era nato. Questo dà un senso particolare al nostro lavoro a distanza di tanti anni.

Luca, nella tua introduzione alla parte fotografica affermi: “Fu la cronaca di giorni sciagurati, quella che ci trovammo a documentare per i media, insieme a decine di altri colleghi. Ognuno per conto suo ma tutti insieme a generare un flusso di informazione che ha permesso negli anni di ricostruire, verificare, assegnare responsabilità e, cosa rara per la fotografia, dimostrare fatti che le autorità hanno cercato di confutare, insabbiare, cancellare con ogni mezzo, fino a oggi”. Come ti sei posto allora in quel ruolo che, immagino, fu chiaro fin dal principio, di testimone privilegiato (e, ricordiamo, in quei giorni non erano tutti muniti di telefoni cellulari e della possibilità di scattare fotografie) e come ti poni oggi di fronte a un mondo dell’informazione completamente stravolto dalle dinamiche che ben conosciamo?
Il “privilegio” del fotografo è una parte essenziale del suo lavoro: bisogna essere presenti, in tutti i sensi. L’onestà intellettuale fa il resto ma non basta. Le dinamiche contemporanee che guidano l’informazione rispondono a delle logiche di mercato che poco hanno a che fare con il modo in cui andrebbero trattate e pubblicate le notizie. Un sensazionalismo sfrenato, un voyeurismo maniacale, una velocità inconciliabile con l’approfondimento sono alcuni tra i nemici da combattere. Un fotogiornalista non skippa, ma ascolta, domanda e si domanda, e questo più che un privilegio è una pratica. Le fotografie del nostro libro sul G8 sono una scelta tratta da quel flusso di cui parlo nell’introduzione: una documentazione capillare che un solo fotografo non avrebbe potuto coprire, che porta il lettore in prima fila in uno scenario tra i più drammatici e controversi della nostra storia recente. Un libro che spero susciti domande, dubbi, curiosità, soprattutto nei più giovani.
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© Carlo Hermann
Federico, cosa ci insegnano sui “fatti di Genova” i contributi raccolti nel volume?
Ci insegnano anzitutto che la cd. società civile è sempre più avanti dei Governi e dei Parlamenti; che l’articolato delle leggi che gli Stati democratici adottano (quando le adottano) seguono sempre, e spesso di molti anni, le istanze dal basso che la società ha già individuato, elaborato e, molto spesso, già digerito. Ne sono un esempio attualissimo i temi legati al genere, al fine vita, alla depenalizzazione delle droghe leggere. Tutti temi in cui la società appare di gran lunga più avanti rispetto al quadro normativo di riferimento; che o è del tutto assente o necessita di una profonda riforma. Ed è stato così anche per i temi agitati dalla generazione “no global” ai tempi del G8: l’ambiente, l’inquinamento, il clima, la sostenibilità dei consumi, lo strapotere delle multinazionali. Tutti temi che oggi sono nell’agenda dei governi e che vengono dibattuti nei vertici multilaterali.
Ci insegnano inoltre che la democrazia è un sistema delicatissimo, che va custodito e curato con estrema attenzione e che le derive autoritarie e violente sono sempre dietro l’angolo e molto più vicine di quanto possiamo immaginare (prova nei siano i fatti del 6 gennaio 2021 con l’assalto al Campidoglio a Washington).
© Francesco Acerbis
Federico, sei un lettore vorace, un interesse per la lettura che spesso si trasforma in desiderio di curare progetti che riescono a mettere insieme più contributi e diversi linguaggi (fotografia, analisi storica, approfondimenti). Anche con questo volume è stato così: dalla prof.ssa della Porta a Carlo Greppi, passando per Don Ciotti, hai raccolto contributi importanti che lo hanno reso qualcosa di diverso da una raccolta, pur fondamentale, di immagini di repertorio, come abbiamo avuto modo di spiegare. Quale è il motivo che ti spinge a farlo?
Credo che la necessità di approfondire sia un’esigenza di cui si sente sempre più il bisogno. Specie per affrontare con un minimo di consapevolezza i temi che una società sempre più complessa ci pone davanti. E in un mondo sempre più dominato dalla superficialità connessa ai social, in cui abbondano e prosperano le fake news, in cui nascono e maturano nuove sacche di ignoranza, è indispensabile anzitutto avere delle fonti attendibili e in secondo luogo osservare la società in prospettiva storica.
Mi fanno orrore i revisionismi, i negazionismi basati sull’ignoranza della memoria del passato, sulle tante lezioni della storia.
Solo la cultura, intesa in senso lato, può essere la medicina per questi mali.

© Luana Monte

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