emuse incontra Max Hirzel e il suo impegno per i migranti
Max Hirzel mi ha inviato una mail, ci siamo conosciuti così. Allegava il suo progetto Corpi migranti, un lavoro che mi ha subito colpito per la gravità dell’argomento e, al tempo stesso, per la profonda umanità che cercava di contenerlo. Max ha effettuato un’operazione che tende a smontare il linguaggio della propaganda mostrandoci l’essenziale di quanto succede da trent’anni in questo nostro mare.
Alcune delle sue immagini richiamano il nostro quotidiano: una croce, un camposanto, una bara, un documento di identità, qualcuno che prega. Ci ricordano che non di numeri stiamo parlando, di personaggi fittizi nei quali è impossibile identificarsi, ma di essere umani.
Nel deserto ho visto una tomba, era di una ragazza di Douala, e mi sono chiesto se suo papà e sua mamma, i suoi fratelli e le sorelle sapessero che la loro bimba è là.
Si apre così il tuo lavoro Corpi migranti una frase che ti si è conficcata nella memoria, come a chiunque la legga. Una frase che contiene in nuce la sintesi del tuo lavoro: la solitudine di un corpo, la relazione con le famiglie di origine, un lutto collettivo che non viene officiato, in Italia come nei paesi d’origine.
Sì, era già tutto in quella frase, anche se ci ho messo un po’ di tempo a capire cosa farne. Mi aveva rivelato una prospettiva da cui non avevo mai osservato un fenomeno che pur credevo di conoscere in tutte le sue facce. È stato uno dei tasselli che mi ha portato qualche anno dopo a indagare la sorte di questi corpi, e non ho potuto che cominciare dalle sepolture.
Racconti del tuo pellegrinaggio sulle tombe dei migranti nei cimiteri siciliani, momenti di turbamento. Cosa ti ha spinto ad andare avanti, a raccogliere i fili dell’indagine che si è dipanata negli anni successivi?
Innanzitutto, il fatto che – pur se all’inizio mi chiedevo che stessi facendo lì e come dovessi farlo, fotograficamente parlando – mano a mano che incontravo uno sepoltura dopo l’altra, sentivo la chiara sensazione che fosse giusto per me essere lì, a prescindere da ciò che ne sarebbe uscito. Come fosse un atto dovuto, parlo a livello strettamente personale; e fotografare ogni tomba incontrata era un gesto di attenzione e rispetto per ognuno di loro. Poi è stata un’esigenza naturale cercare di sapere tutto il possibile di ognuno di queste persone senza nome: anche solo i dati autoptici riportano dai numeri alla dimensione individuale, quindi il tema dell’identità e del lavoro di identificazione si è imposto come centrale. Infine, ho intuito che questa angolatura del fenomeno, il destino dei corpi e ciò che vi ruota attorno, fosse in qualche modo emblematico di tutto il tema della migrazione e di come l’Europa lo approccia e gestisce, della relazione collettiva tra “noi” e “loro”, e della responsabilità di queste morti. Non potevo quindi non raccontarlo.
Nel cimitero di Sortino, nei pressi di Sircausa, Mohamed Matok, siriano, raccolto in preghiera davanti alla tomba di suo fratello Bilal, deceduto all’età di 16 anni nel tentativo di raggiungere l’Europa, il 24 Agosto 2014.
Sortino, 2017.
Susan Sontag nel suo famoso saggio Davanti al dolore degli altri ci parla della difficoltà e, al tempo stesso, della necessità di fare conoscere, attraverso la fotografia, anche le sofferenze più atroci: «Non veniamo totalmente trasformati, possiamo distogliere lo sguardo, voltare pagina, cambiare canale, ma questo non vanifica il valore etico delle immagini da cui siamo assaliti. […] Tali immagini non possono che essere un invito a prestare attenzione, a riflettere, ad apprendere, ad analizzare le ragioni con cui le autorità costituite giustificano le sofferenze di massa».
Tu come hai affrontato questo aspetto nel tuo lavoro?
Ammetto che ne ho preso coscienza più a lavoro finito che prima, mi riferisco al mio approccio. Lì per lì non avevo – e non ho ancora devo dire – alcuna illusione che il mio lavoro potesse “muovere” qualcosa nel tempo presente, abbiamo già visto talmente tanto, e io non sono nessuno per poter pensare di avere chissà quale risonanza. Pensavo più a un lavoro di documentazione per la memoria futura, per fissare qualcosa che deve essere registrato, che non possa lasciare dubbi su quanto avviene. Per dire, guardate che di questo si tratta. Da un punto di vista fotografico mi è stato subito chiaro che avrei dovuto evitare qualsiasi tipo di enfasi, non c’era bisogno di aggiungere nulla, era tutto già lì, così folle e così chiaro. Ho cercato di fotografare la realtà in maniera cruda, o meglio nuda, il termine cruda è fuorviante. Col senno di poi, anche alla luce delle reazioni del pubblico nelle esposizioni, credo che queste immagini, che evocano più che mostrare il dolore e il dramma a cui assistiamo da tanto, troppo tempo, stimolino la riflessione e l’immaginazione più che se avessero mostrato i corpi straziati, che pur ho visto. E che qualche dubbio in proposito me l’hanno posto.
Durante le prime presentazioni del libro e quelle che seguiranno, mi è stato evidente che sei stato capace di costruire profonde relazioni con le persone con cui hai collaborato, da chi si batte per i diritti dei migranti, a chi è impegnato nelle operazioni di salvataggio in mare, ma anche con i rappresentanti delle istituzioni. Emerge un coro di voci sinceramente solidali e empatiche con il destino delle persone che tentano di raggiungere l’Italia e l’Europa. Nel controllo delle migrazioni, nella sorveglianza delle acque, negli interventi in occasione di naufragi, ognuno fa il suo pezzetto, spesso anche con diligenza, dedizione e umanità. Cosa impedisce allora la costruzione di un movimento che possa fare pressione sulla politica affinché le cose possano cambiare?
Domanda da centomila dollari. Da un lato credo abbia a che fare più in generale con la forma – o la non-forma – che ha assunto il dissenso in Italia negli ultimi venti anni. Da dopo Genova, non si è più visto un movimento di massa trasversale e in grado di esprimere con forza pressione e proposte, le battaglie sono tutte parecchio parcellizzate. Penso anche che i canali social assorbano molta “energia dissenziente”, molto comoda e in concreto poco efficace. Uno lo esprime lì e ha la sensazione di avere fatto il suo, che è anche vero, solo che non porta granché. Ma soprattutto negli ultimi anni si è imposta in maniera così forte la retorica dell’invasione, il concetto di clandestinità e illegalità di chi si muove, l’assuefazione a morti percepite come “tragedie naturali” su cui possiamo solo piangere, del tutto scollegate dal concetto di responsabilità, un insieme di cose che portano a pensare che “purtroppo non possiamo farci nulla”, come se fosse impossibile immaginare di incidere sulle leggi che ci rappresentano. E anche immaginandolo, l’Unione Europea è così tesa nella direzione opposta da rendere impensabile inventarsi forme di protesta per invertire la rotta attuale, che ci porterà ancora molti molti corpi, questo è lampante. Fatichiamo anche solo a difendere la posizione di chi quelle vite prova a salvarle, che è sempre l’ultimo intervento possibile, ma non sufficiente, per quanto prezioso. La dice lunga. Eppure sarebbe possibile, ma siamo piegati su noi stessi; immagina se ad ogni naufragio tutta la gente “rimasta umana” scendesse in strada, davanti a casa propria e ci restasse tutta la notte, a oltranza, a milioni. Per dire, a noi non sta bene. Fantascienza? Così pare, ma dipende da noi, quindi nessuno di noi è senza responsabilità.


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