emuse incontra Ranuccio Sodi, onnivoro della televisione
L’editrice Grazia Dell’Oro ha intervistato Ranuccio Sodi.
Ho conosciuto Ranuccio grazie a Marco Pea, grafico editoriale emuse e propiziatore di incontri. Sembrava impossibile fare un libro insieme. Ma una volta scardinata la mia diffidenza verso la televisione, mi si è aperto un mondo, quello che lui ha frequentato in oltre cinquant’anni di incessante operosità, incredibilmente accompagnata da un sottile e pungente spirito critico.
Ranuccio Sodi: fonico, operatore, montatore, regista, autore e produttore.
Nel tuo cv versione lunga si legge: “Ha spaziato dalle Biennali di Venezia alla cantieristica, dai cercatori di tartufo alle tecnologie informatiche, dall’industria del sughero alle biotecnologie, dal Subbuteo ai conflitti mediorientali, da Sai Baba a Anish Kapoor, da Bernardo Bellotto a Fabio Novembre, dagli acrobati russi ai monasteri del Monte Athos, da Fabrizio de André a Roberto da Crema, dai vitigni autoctoni a un time-laps durato tre anni. Cinematografia, televisione e salti quantici: tutte esperienze e interessi che plasmano, arricchiscono e segnano una vita”. Ripercorrendo, oggi, questa tua variopinta carriera, c’è qualcosa che vorresti non avere fatto e qualcosa che devi ancora fare?
I curricula in genere sono elenchi di titoli accademici o di ruoli aziendali: nel mio caso, non esistendo in maniera univoca nessuna delle due gerarchie, riporto semplicemente le tematiche a cui mi sono dedicato, per interesse personale o per precise committenze. Penso che fare il regista televisivo (che poi è già una definizione imprecisa) sia soprattutto occuparsi di progetti di comunicazione attorno ai soggetti più vari; mi spingo a ritenere il mio mestiere simile a quello di un designer, che studia e cerca di coniugare forma e funzione di oggetti o mansioni di qualunque tipo, anche immateriali. Non ho quindi problemi a rivendicare i temi alti e quelli bassi – secondo i paludati e paludosi parametri della cultura tradizionale – con cui mi sono confrontato in questi decenni. Semmai, aver a che fare con un lavoro non codificato, senza albo o altre difese corporative, può generare quella che l’amico Enzo Jannacci definiva la “sindrome del saltimbanco”: ovvero, di un mestiere che, nel comune sentire, è reversibile e apparentemente senza valutazioni oggettivizzabili; che tutti quindi ritengono di poter fare perfettamente o di cui possono discettare impunemente (come di un allenatore di calcio, di un politico, o, appunto, di un comico; cosa meno facile per un mestiere codificato come il chirurgo o l’ingegnere). Questo genera continue ansie da prestazione o insicurezze sulle proprie competenze e capacità; e non deve stupire che molti protagonisti del mondo dello spettacolo soffrano di depressione. Qualche rammarico? Ho lavorato intensamente e per più di un anno a un progetto sul Salvator Mundi di Leonardo da Vinci, la cui storia soprattutto recente è un romanzo avvincente, che mi ha veramente appassionato, e che doveva diventare una grande produzione internazionale: ma purtroppo destinato a restare nel cassetto, almeno per ora. E sto comunque recuperando alcuni interessi giovanili (fisica e fonti energetiche) che mi piacerebbe trasformare in forme di competenza professionale.
emuse è una casa editrice specializzata in libri e manuali fotografici e può sembrare strano che venga pubblicato un volume che parla di televisione. In che modo fotografia e storia della televisione si parlano?
Nel testo viene riportata una citazione di László Moholy-Nagy, pittore e fotografo ungherese appartenente alla scuola del Bauhaus: Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro. La comunicazione audiovisiva, il cui impatto nelle nostre vite è esploso in maniera esponenziale negli ultimi decenni, non sembra faccia più distinzione tra immagini fisse o immagini in movimento, fondendosi spesso con i sonori che accompagnano qualunque fruizione. L’avvento del digitale ha mescolato due mondi una volta rigidamente compartimentati, quello fotografico e quello cinematografico, uniformandoli in file intercambiabili, e questa tendenza in futuro sarà ulteriormente accelerata, in forme ancora imprevedibili. La stessa tecnologia “consumer” porta alla convergenza, a questa specie di fusione tra i due campi: da tempo ogni device audiovisivo scatta foto o registra video e sonori; e la ricerca delle “immagini significative” (qualunque cosa voglia significare), la grammatica dell’illuminazione, la composizione dell’inquadratura in un video appartengono allo stesso alfabeto di cui parla Moholy-Nagy. Sarebbe quindi irrealistico, per un editore, creare steccati tra libri che parlano di immagini statiche oppure in movimento. Unico vero bivio è semmai occuparsi del medium televisivo: i cui contenuti, o perlomeno, la cui programmazione è più una grammatica che un alfabeto, e non sempre irreprensibile.
Leggendo C’era una volta il monoscopio mi sono trovata immersa in una storia d’Italia scritta di sponda. La storia della televisione, nei suoi meccanismi intrinseci, negli aspetti tecnologici, politici, di costume, corre parallela alla storia del Paese. È interessante capire come tu, con le tue posizioni che stanno sempre un passo a lato, ti sia mosso fuori e dentro dal perimetro ingessato del “sistema spettacolo”…
Per la mia formazione scolastica, ero più dedito alle “scienze esatte” che a quelle “molli”. Ma interessarmi alla televisione mi ha permesso di conciliare tecnologia e approccio artistico/spettacolare nella conoscenza della realtà circostante, mia ma non solo; al tempo stesso, una visione “pop” della cultura, il cercare di mescolare alto e basso, cambiare spesso punto di vista come si trattasse di un continuo “trattamento cinematografico”, credo permetta di non aderire troppo entusiasticamente a facili modelli di omologazione, consentendo di valutare con maggior distacco limiti e stereotipi che i media propongono inevitabilmente e continuamente. Tra l’altro, lavorare con bravi autori tv e comici ti insegna a non prenderti mai troppo sul serio: quelli che lo fanno, che se la tirano ingiustificatamente, in genere sono i meno capaci.
Quali sono i personaggi televisivi (davanti o dietro le quinte) che hanno, a tuo parere, dato un maggior impulso alla cultura italiana?
Ho cercato di raccontare le esperienze di alcuni protagonisti dell’epopea generalista, e di interpretare il modo in cui hanno assolto al ruolo di grandi “acculturatori popolari” tra gli anni ’50 e i primi anni ’80: anni che hanno visto, proprio grazie alla televisione, l’avvento di un comune “immaginario nazionale”, oltre al radicamento dell’italiano come lingua comprensibile da “Aosta a Zagarolo”. I meriti di questa omogeneizzazione – che ha avuto peraltro fieri critici, venendo considerata un impoverimento: uno per tutti, Pier Paolo Pasolini – vanno ai padri di quella televisione, alla lungimiranza e visione alta della loro missione; oltre ai personaggi noti perché in onda come Mike Bongiorno, Corrado, Mario Riva e il Maestro Manzi, bisognerebbe ricordare funzionari e autori (come Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Mario Carpitella, Enrico Vaime: allora tutti dipendenti Rai), illuminati direttori generali come Ettore Bernabei, nonché i grandi registi di quella stagione, come Vito Molinari e Antonello Falqui. Le mie personali predilezioni vanno a Enzo Trapani, un vero visionario che ha rivoluzionato il linguaggio non solo del varietà, e a Angelo Guglielmi, raffinato intellettuale e grande innovatore del palinsesto tv.
Tra couch-potato (espressione tua per definire lo spettatore televisivo passivamente appollaiato sul divano) e odierni schizofrenici dei dispositivi di fruizione individuale, quale è il terzo elemento che salverà il mondo?
McLuhan sostiene che i media operino le vere rivoluzioni sociali che hanno successo, e che invenzioni come la stampa, il treno, la televisione abbiano plasmato (e continuino a farlo sempre più compulsivamente) la nostra società, le nostre abitudini e la nostra stessa concezione del mondo. La speranza è che questo innervamento globale, questa grande e continua interconnessione aumenti la percezione dei pericoli che stiamo correndo come genere umano: effetto serra, devastazioni ambientali, oppure il crescente rischio di una devastante guerra totale governata in automatico da intelligenze artificiali (personalmente, ho il terrore che scoppi un conflitto nucleare per qualche PC che va in crash o qualche radar difettoso: i tempi di reazione militare sono ormai ridottissimi, e non servirebbe più a nulla il famoso “telefono rosso” USA/URSS che evitò più di un olocausto nucleare).
Tra contenuto e tecnica, cosa sceglieresti?
Credo che ogni messaggio significativo sia una unione indissolubile di vari livelli di comunicazione, e distinguere tra tecnica e contenuto (o tra forma e contenuto) sia molto difficile se non impossibile. Di mio, sono sempre stato affascinato dalle evoluzioni tecniche e dal loro potenziale positivo, e quindi mi piace pensare che ogni nuovo step tecnologico modifichi, condizioni e innovi anche i contenuti: scelgo la tecnica, sperando che quel PC di cui parlavo prima non vada in crash!
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